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Rifiutare senza paura il femminismo nella chiesa

 

Francesco De Lucia

 

 

 

Introduzione

 

Il femminismo moderno esercita un’influenza significativa nelle famiglie e nelle chiese cristiane odierne. E’ sempre meno raro, anche nelle chiese più conservatrici, vedere donne portarsi con maniere quasi-mascoline e uomini assumere atteggiamenti quasi-femminili. In non poche famiglie le mogli sono il capofamiglia di fatto, e, se non il capo, il proverbiale “collo che muove il capo”. Similmente, non è infrequente, anche nelle chiese più conservatrici, trovare donne che operano, più o meno formalmente, in posizione di insegnanti durante gli incontri plenari della chiesa. Ed è ormai quasi universale dare per scontato che negli incontri della chiesa esse possano pregare, testimoniare, o condividere una parola di esortazione. Ora, secondo le Scritture tutte queste attività rappresentano un esercizio di autorità sul resto della chiesa riservato solo agli uomini. Per quanto forse scioccante per molti cristiani oggi, in questo saggio argomenterò che questo è un chiaro insegnamento biblico, peraltro sostenuto da molti cristiani nel passato. 

 

A tutti i credenti che credono nell’infallibilità della Scrittura dico: non dobbiamo aver paura di lasciare che essa dica quello che dica su questo tema. Mettiamo la paura da parte e ascoltiamo la voce forte e chiara del Signore nella Sua Parola: l’uomo è designato e chiamato da Dio ad essere il capofamiglia di nome e di fatto e questo deve riflettersi e non contraddirsi nel chi agisce come leader in chiesa e nel parlare durante gli incontri plenari della chiesa locale. Anche parlare negli incontri di chiesa è un’espressione dell’ autorità che Dio ha dato all’uomo. Alle donne sono riservati altri ruoli perché esse sono fatte da Dio per essere diverse dagli uomini e per poterli completare proprio mantenendo questa diversità. In questa bellissima unità nella diversità, e non appiattendo le differenze, uomini e donne credenti avranno l’opportunità di mostrare al mondo cosa sia la gloriosa immagine di Dio. Ricordate: piacere un pò di più al mondo non guadagnerà il mondo al Signore. Piacere al Padre celeste benedirà grandemente tutti quelli che Gli ubbidiranno. 

 

 

Parlare in chiesa

 

Inizierò col punto del parlare in chiesa, usandolo come pretesto per poi inoltrarmi nella questione più fondamentale dell’autorità in famiglia e in chiesa. Sul parlare in chiesa le Scritture non sono complicate ma risultano anzi disarmanti nella loro semplicità e direttezza. I Corinzi 14 è il passaggio che più direttamente di tutti regola la pratica del parlare in generale durante gli incontri della chiesa intera. Vediamo cosa afferma. 

 

Il verbo originale per la parola “parlare” usato in questo capitolo è il termine greco antico lalein. Prima di tutto è importante rendersi conto che questo verbo significa “parlare” in generale, aprire la bocca ed emettere suoni udibili e comprensibili. In tutto il capitolo 14 viene difatti così usato:  

 

  • Al verso 2 si riferisce al “parlare” in lingue, e viene detto che se tradotto è funzionalmente equivalente al profetizzare; 

  • Al verso 3 è usato per descrivere le profezie, che vengono descritte come un linguaggio di edificazione, esortazione e conforto; 

  • Al verso 4 è usato per entrambi il “parlare” in lingue e le profezie; 

  • Al verso 5 è usato per entrambe le cose e ci viene comandato che se si deve “parlare” (lalein) lo si deve fare per edificare la chiesa o non lo si deve fare affatto; 

  • Al verso 6 la parola lalein, che si riferisce sempre a profezia e parlare in lingue, è detta essere un linguaggio che conferisce una rivelazione, una conoscenza, una profezia e un insegnamento; 

  • Al verso 9 è usata per descrivere in generale qualsiasi cosa sia “pronunciata con la lingua”; 

  • Ai versi 18-19 l’apostolo dice che in chiesa preferisce dire (lalein) cinque parole intellegibili che mille non intellegibili per poter insegnare (katexeso) anche gli altri. 

 

Da questa analisi risulta che la parola lalein è usata in questo capitolo per indicare qualsiasi tipo di espressione verbale fatta durante gli incontri della chiesa, e che essa risulta in un insegnamento, un’edificazione, un’esortazione o un incoraggiamento. Leggiamo ora I Corinzi 14:34-35 (traduzione letterale dal greco originale):

 

Come in tutte le assemblee dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, infatti non è permesso loro di parlare (lalein), ma siano sottomesse, come anche dice la legge. E se vogliono imparare qualcosa, a casa interroghino i loro mariti; infatti è vergognoso per una donna parlare (lalein) in assemblea.

 

Dopo aver regolato il “parlare” in assemblea, l’apostolo proibisce in modo inequivocabile alle donne di svolgere questa attività durante l’incontro principale della chiesa. Egli proibisce che loro facciano quello che in tutto il capitolo designa variamente come profezie, preghiere, insegnamenti, etc., designate appunto con la parola greca “lalein”. Già solo da quanto detto fin qui dovrebbe risultarci chiaro che gli uomini possono parlare secondo le regole stabilite fino al verso 33, e che le donne invece non possono farlo durante l’assemblea plenaria della chiesa secondo quanto detto ai versi 34-35.   

 

Alcuni però hanno detto che questa non può essere la lettura corretta, perché I Corinzi 11:5 permetterebbe, a loro detta, che le donne preghino e profetizzino nelle assemblee. Secondo questa contenzione in I Cor. 14 alle donne verrebbe proibito soltanto l’insegnare, il predicare nell’assemblea, fare domande, o giudicare le profezie. Variazioni di questo approccio sono adottate dalla maggioranza delle chiese evangeliche conservatrici al giorno d’oggi.[1] Anche io per anni ho sostenuto una di queste variazioni, ma col tempo ho dovuto ammettere che nessuna di esse rende piena giustizia alla chiarezza del testo di I Cor 14. Tutte invece sono costrette a forzature interpretative che piegano il testo a dire quello che il testo non dice. Data la popolarità di questo approccio, spiegherò perché non può essere una soluzione accettabile. 

 

Primo, chi afferma che I Cor. 11:5 permettesse alle donne di profetizzare o comunque parlare in assemblea, cerca di difendere il punto che le profezie o espressioni verbali che queste donne si presuma pronunciassero durante le assemblee non risultavano essere di fatto un insegnamento per chi ascoltava. Contrariamente a ciò, però, l’apostolo dice al verso 19 che perfino pronunciare cinque parole nell’assemblea, e questo senza specificare in quale forma (che poteva quindi nel contesto includere preghiere, profezie, etc), doveva essere fatto proprio per poter insegnare gli altri! Dal contesto del capitolo 14 è chiaro che ogni forma di parlare in assemblea, in qualsiasi forma fosse fatto, doveva essere fatto col proposito di insegnare ed esortare la chiesa, e che quindi rappresentasse di fatto l’esercizio di una certa autorità sulla chiesa. 

 

E qualsiasi chiesa che metta in pratica il comando di I Corinzi 14:26, ovvero che pratichi, oltre al sermone e alla Santa Cena, un tempo di partecipazione durante gli incontri principali, un tempo in cui chiunque, con ordine, può esortare, testimoniare, dare un breve insegnamento, o pregare, confermerà che chiunque si esprima, in qualsiasi forma, per edificare la chiesa, eserciterà sul resto della chiesa una forma di autorità che il resto della chiesa percepirà come tale. Chi parla per edificare esercita autorità ed influenza chi ascolta. Questa autorità ed influenza non è permessa dall’apostolo alle donne durante gli incontri di chiesa dove tutti gli uomini, mariti, padri e anziani di chiesa, sono presenti. 

 

Secondo, va ripetuto ancora una volta quello che è ovvio: non si rimuova dal testo la chiarezza e la forza delle parole dei versi 34 e 35! Essi proibiscono alle donne di parlare nelle assemblee, e il verbo “parlare” è “lalein”, il verbo che nei versi precedenti, in tutto il capitolo, viene usato per descrivere qualsiasi forma di parlare, indistintamente dalla forma, incluse preghiere e profezie. Il passaggio dice non, come è stato suggerito variamente, che le donne non possono giudicare le profezie, non che le donne non possono predicare ma parlare altrimenti, non che le donne non possono fare domande o spettegolare ma profetizzare e pregare. Il passaggio dice che le donne non devono parlare nelle assemblee plenarie della chiesa ma devono rimanere in silenzio. Chiedetevi: se l’apostolo avesse voluto comandare alle donne non una forma di restrizione particolare, ma il silenzio assoluto, cosa altro avrebbe dovuto affermare se non quanto ha già semplicemente e chiaramente affermato? Siamo onesti col passaggio!

 

Se si ammette che il passaggio dice quello che dice, si vorrà certamente capirne il motivo. Il passaggio ce lo dà. Dopo aver asserito la proibizione di parlare e l’ingiunzione a rimanere in silenzio, dice: “ma devono rimanere sottomesse, come dice anche la legge”. Che vuol dire? Vuol dire sottomesse all’autorità maschile. La ragione del silenzio è dunque che esse devono rimanere sottomesse all’autorità maschile. Significa sottomesse ai mariti per le donne sposate (il passaggio si rivolge più direttamente alle donne sposate), ai padri se non sono sposate, o agli anziani della chiesa se non sono sposate e non hanno padre in assemblea. Quando essi sono presenti in una riunione insieme alla donne esse non devono esercitare autorità su di loro prendendo la parola per edificare ed insegnare o esortare la chiesa in alcun modo. Ecco il motivo. 

 

Per rafforzare questa motivazione, il passaggio afferma che questo lo dice “la legge”. Come viene generalmente accettato dai commentatori, “la legge” non fa riferimento ad alcuna “legge” in quanto tale dell’Antico Testamento, a nessun comandamento specifico, ma la parola “legge si riferisce qui al suo senso lato di “Antico Testamento”, e in particolare all’ordine uomo-donna che Dio ha stabilito fin dalla creazione descritta in Genesi. La proibizione del parlare in chiesa ha quindi a che fare con la sottomissione all’autorità maschile secondo l’ordine creazionale stesso stabilito da Dio nel principio. Ciò verrà reiterato e confermato nel passaggio parallelo in I Timoteo 2:9-15, che considereremo a breve. 

 

Viene poi anche detto che pronunciarsi in assemblea per una donna è una cosa “vergognosa”. Un tale linguaggio è comprensibile solo capendo che la cosa considerata vergognosa è quella di asserire la propria autorità sul marito e sugli altri uomini davanti a tutta l’assemblea, quando questo è vietato dall’ordine creazionale di Dio in cui l’uomo, e non la donna, deve essere ed agire come l’autorità. Parlare in chiesa, in qualsiasi forma, è una forma di insegnamento e risulterà quindi necessariamente in un esercizio di autorità su chi ascolta. Come già detto, questo è proibito alle donne perché contraddirrebbe la sottomissione che devono avere e mostrare nei confronti dei mariti (o padri, o anziani di chiesa), e contravvenire a questo ordine di cose sarebbe agli occhi di Dio vergognoso. 

 

A chi si facesse scrupoli sull’appropriatezza del mio intendimento delle parole del passaggio nel greco originale, proporrò la breve esegesi di B. B. Warfield (sulla cui competenza nelle lingue originali non ci dovrebbero essere dubbi per chi conosce il mondo teologico conservatore): 

 

La parola lalein occupa un luogo appropriato in I Corinzi 14:33ss. … e il suo signficato necessario è quello più semplice e naturale. Se abbisognassimo di qualcosa per fissarne il significato, questo sarebbe il suo frequente uso nella parte precedente del capitolo, dove fa riferimento non soltanto al parlare in lingue … ma anche al discorso profetico, che è direttamente dichiarato essere edificazione, esortazione e conforto (vv. 3-6). 

 

Ancora più pungente, però, è il suo termine contrastante: “stiano in silenzio” (v. 34). Qui abbiamo lalein definito in modo diretto per noi: “le donne stiano in silenzio, perché non è permesso loro di parlare”. “Rimangano in silenzio” e “parlare”: ecco i due opposti, e l’uno definisce l’altro … Paolo poi aggiunge per spiegare meglio: “perché non è permesso loro parlare”. “Non è permesso” è un appello ad una legge generale, valida a prescindere del comando personale di Paolo, e si rifà a quanto detto prima: “come in tutte le chiese dei santi”.

 

E che questo sia il significato delle parole è chiaro anche dal verso 36 in cui, rimproverandoli per l’innovazione del permettere alle donne di parlare nelle assemblee, egli ricorda loro che non sono gli originatori del Vangelo, né i suoi soli possessori, e dunque si mantengano aderenti alla legge che vincola l’intero corpo di chiese e non cerchino qualche novità propria. 

 

La sua ingiunzione di silenzio si spinge fino al punto di proibire perfino di fare domande. Con riferimento a questo egli aggiunge, riportandosi anche all’argomento più ampio, la crisp dichiarazione che “è vergognoso” perché questo significa quella parola “che una donna parli in assemblea”. Egli ci dice ripetutamente che è una legge universale nelle assemblee. E anche di più: ci dice che è il comandamento del Signore … (v. 37).[2]

 

Infine, in risposta all’obiezione da I Corinzi 11:5, il passaggio che, viene detto, contraddice la proibizione assoluta del silenzio nelle assemblee, diremo che l’intero contesto del passaggio in questione (I Cor. 11:2-16) non menziona affatto gli incontri di chiesa, e dunque esso non va limitato agli incontri di chiesa. Degli incontri di chiesa, specificamente, Paolo non inizia a parlare che in I Corinzi 11:17, dopo il nostro passaggio in questione. Che possa essere così non è strano se si ricorda che la divisione in capitoli e versetti non è originale al testo greco, ma è stata introdotta nei secoli successivi. 

 

Se è vero che I Corinzi 11:2-16 non parla (ancora) degli incontri di chiesa in quanto tali è più che ragionevole intenderlo come un regolamento generale del modo in cui uomini e donne debbano pregare in qualsiasi momento e contesto. Il testo di I Corinzi 11:5 non specifica infatti un contesto dove le donne sono viste “pregare o profetizzare”, ma afferma semplicemente “ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto fa disonore al suo capo”, cioè: dunque dovunque e quandunque ciò accada. E’ soltanto più tardi, appunto in I Corinzi 14:34-35, che l’apostolo poi regolerà la questione specifica del parlare delle donne in assemblea plenaria, chiaramente proibendolo con i motivi addotti.[3]

 

A conclusione di questa sezione devo quindi purtroppo osservare che la maggior parte dell’evangelicalismo contemporaneo, certamente comprensibilmente perché sotto pressione da parte del contesto sociale in cui viviamo, ha generalmente frainteso e distorto il contesto e il significato di entrambi i passaggi (I Cor. 11 e 14). Secondo loro I Corinzi 11:5 permette alle donne di parlare in chiesa, quando il passaggio non dice “in chiesa”. E secondo loro I Corinzi 14:34-35 non proibisce alle donne di parlare in chiesa, quando quello è esplicitamente ciò che il passaggio sta proibendo. Rimettiamo le cose al loro posto secondo il loro giusto ordine biblico.

 

 

Ruoli ed autorità in famiglia ed in chiesa

 

Avendo chiarito sufficientemente, speriamo, il significato di questi due passaggi chiave, la risposta alla nostra prima domanda deve quindi essere questa: la Parola di Dio e non l’opinione di un uomo, come affermato in I Corinzi 14:37-38, comanda in modo chiaro ed assoluto che le donne si trattengano dal parlare nell’assemblea plenaria della chiesa. Esploriamo adesso un po’ più in profondità la ragione di questa restrizione.

 

Per prima cosa parleremo dei ruoli maschili e femminili che la Scrittura assegna in famiglia, di cui la chiesa puo considerarsi un’estensione.[4] Se l’uomo è concepito come l’autorità in famiglia, va da sé che non possiamo poi aspettarci di trovarlo sottomesso all’autorità della donna in chiesa: le Scritture non si contraddicono. In secondo luogo, vedremo che in un determinato passaggio le Scritture dicono in modo inequivocabile che le donne non devono usurpare l’autorità sugli uomini, ma devono essere in una posizione di sottomissione ed imparare in silenzio. 

 

Consideriamo quindi brevemente cosa le Scritture dicono riguardo i ruoli generali di uomini e donne nella famiglia cristiana, e dopodiché considereremo il contesto della chiesa. I passaggi principali che stabiliscono l’ordine appropriato tra uomini e donne in famiglia nel Nuovo Testamento sono 1 Corinzi 11:2-16, Efesini 5:22-23 (col parallelo Colossesi 3:18-19) e I Pietro 3:1-7. A seguire darò un breve sguardo a questi testi in ordine. 

 

In I Corinzi 11:2-16 si tratta de: le attitudini e i comportamenti appropriati di uomini e donne nel pregare e profetizzare in generale (vv. 4-11); la sottomissione della donna all’autorità dell’uomo, come dell’uomo a Cristo (vv. 3, 8-10). Quanto ci preme qui evidenziare è che, contrariamente ai sofismi dei femministi evangelici, se la parola “capo” (in greco kephale) quando riferentesi a Cristo significa che dell’uomo Egli è il “capo” (cosa non si capisce di questa parola?), la medesima parola non può avere un significato diverso nella frase appena successiva quando è attribuita all’uomo per descrivere la sua posizione nei confronti della donna (il marito con la moglie, il padre con la figlia, l’anziano con le donne in chiesa). 

 

L’uomo in quanto uomo è, nell’ordine pensato e creato da Dio, come il capo della donna. La donna è inoltre detta essere gloria dell’uomo (11:7), di avere origine dall’uomo (11:8) e di essere creata per l’uomo, e non il contrario (11:9). Nell’ordine creazionale di Dio, l’uomo viene prima, la donna da lui, per lui e per essere sua gloria ed aiuto. Lo Spirito Santo fa risalire qui la sottomissione della donna all’uomo al design creazionale di Dio per la razza umana dal principio della creazione e prima della caduta e della distorsione che il peccato apportò a quest’ordine. 

 

Efesini 5:22-23 e il suo parallelo in Colossesi comandano chiaramente la sottomissione delle mogli cristiane ai loro mariti in ogni cosa come al Signore, ed affermano chiaramente che l’uomo è il capo della moglie come Cristo è il capo della chiesa. Impariamo qui che il matrimonio tra gli umani è stato istituito da Dio per essere un riflesso umano del Suo matrimonio col Suo popolo attraverso Cristo, e che come la chiesa deve sottomettersi ed essere obbediente ed imparare dal Signore Gesù Cristo, così la moglie deve sottomettersi, rispettare ed imparare dalla leadership spirituale del marito. 

 

Da questo passaggio poi impariamo anche che l’autorità del marito sulla moglie è stabilita in modo parallelo a quella di Cristo sulla chiesa, una relazione di reale autorità come reale è l’autorità che Cristo ha sulla chiesa, ma, proprio come quella di Cristo, un’autorità amorevole fatta anche di grandi sacrifici per lei. Come Cristo con la chiesa, l’uomo non è solo il capo ma anche colui che dà la sua vita stessa per la moglie.[5] Inoltre, come Cristo santifica la chiesa con la Parola, così dovrebbe il marito essere il leader spirituale della moglie e il “pastore” della sua unità familiare.[6]

 

Infine, I Pietro 3:1-7 esorta le mogli cristiane a sottomettersi e rispettare i loro mariti, che siano credenti o meno, e ad essere modeste nel loro abbigliamento. Comanda ai mariti di non abusare l’autorità che Dio ha dato loro, ma di esercitarla con pazienza e comprensione nei riguardi delle mogli, così che le loro preghiere non siano impedite. Il fatto che venga affermato che il marito non deve esercitare con impazienza e insensibilità il suo ruolo nella coppia conferma, se ce ne fosse bisogno, che il marito viene concepito in una vera posizione di autorità e leadership nei confronti della moglie, leadership che può ma non deve venire abusata proprio perché è una posizione di reale autorità. 

 

Questi passaggi presentano le relazioni e ruoli tra mariti e mogli nel contesto del matrimonio e della famiglia in termini di sottomissione/autorità, e vengono radicate in principi spirituali generali riguardanti l’autorità di Cristo sulla chiesa, e le ordinanze divine precedenti alla caduta. Queste ordinanze non vengono rovesciate dopo la caduta nel peccato, e non sono sovvertite nel contesto delle relazioni di chiesa, la chiesa essendo composta appunto di famiglie (cf. Gen. 12:3; At. 2:39; 16:14-15, 31-33; I Cor. 1:16, etc.). Esse devono quindi essere coerentemente mantenute e rispettate, secondo i regolamenti peculiari al contesto ecclesiale. Se, ad esempio, la moglie deve sottomettersi al marito in ogni cosa nel Signore (Ef. 5:24), sarebbe un totale ribaltamento di quest’ordine vederla esercitare autorità sul marito nel contesto ecclesiale, e non solo sul marito ma anche su ogni altro capofamiglia della chiesa.[7]

 

Dalle precedenti Scritture ed argomentazioni dovremmo essere in grado di riconoscere che la contenzione femminista è esattamente contraria alle volontà di Dio rivelata nelle Scritture. I Timoteo 2:11-15, un passaggio pertinente specificamente all’ordine da praticare in chiesa (cf. 3:15), aggiunge un importante contributo alla discussione: 

 

La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d'insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell'amore e nella santificazione con modestia.

 

Nel suo classico commentario, Matthew Henry spiegava così il testo: 

 

Le donne devono … rimanere in silenzio, in sottomissione, ed essere soggette e non usurpare autorità. La ragione addotta è che Adamo fu formato per primo, poi Eva da lui, per denotare la sua subordinazione a lui e dipendenza da lui, e che ella fu fatta per lui, per essergli un aiuto convenevole. E come fu seconda nella creazione, una delle ragioni della sua sottomissione, così fu prima nella trasgressione, una seconda ragione. Adamo non fu ingannato, ovvero, non per primo, il serpente non approcciò prima lui, ma la donna, che trasgredì per prima (II Cor. 11:3), e fu parte della sentenza, “il tuo desiderio si volgerà verso tuo marito, ma egli dominerà su di te” (Gen. 3:16). 

 

Ma vi è una parola di conforto (v. 15): chi continua nella sobrietà sarà salvata partorendo figli, il Messia, che nacque da donna, che doveva schiacciare il capo del serpente (Gen. 3:15); e la sua sentenza non le precluderà l’essere ricevuta da Cristo, se continua nella fede, nella carità, e santità, con sobrietà. Qui si osservi … il loro portamento esteriore … deve essere quieto, in soggezione … Le donne devono professare pietà come gli uomini, battezzare, e darsi alla pietà, e sia detto a loro onore, molte di loro erano esempi di pietà ai giorni degli apostoli, come ci informa il libro degli Atti. 

 

Secondo Paolo le donne devono imparare e non farsi insegnanti nella chiesa, perché insegnare è un esercizio di autorità, e la donna non deve usurpare autorità sull’uomo, ma deve stare in silenzio … Ecco due ottime ragioni per l’autorità dell’uomo sulla donna, e per la sottomissione della donna all’uomo: Adamo fu formato per primo, e poi Eva, ella fu creata per l’uomo e non viceversa (I Cor. 11:9), ella fu ingannata e condusse l’uomo in trasgressione.[8]

 

Come afferma Henry, anche in questo passaggio vediamo che il comando del silenzio e della sottomissione, insieme alla proibizione chiara di esercitare autorità sull’uomo (in chiesa come in famiglia), è basato, oltre che sul fatto della caduta nel peccato di Eva prima che di Adamo, sull’ordinanza divina creazionale precedente alla caduta. La donna fu formata alla creazione dopo l’uomo, e per l’uomo: questa è la ragione per cui deve essere in sottomissione e in silenzio. La sottomissione ha a che fare con il proposito stesso per cui Dio creò la donna dal principio. 

 

Il passaggio di Genesi ci rivela poi altri dettagli che stabiliscono l’autorità dell’uomo sulla donna fin dal principio della creazione: 1) Dio diede il nome all’uomo, ma fu Adamo a dare il nome alla donna, sia prima che dopo la caduta (Gen. 2:21-23; 3:20); 2) fu Adamo a ricevere l’ordine e la responsabilità e quindi l’autorità di assicurarsi di non mangiare del frutto della conoscenza del bene e del male, e non Eva (Gen. 2:16-17); 3) Dio tenne Adamo primariamente responsabile per la trasgressione di entrambi e dell’intera razza umana, benché Eva trasgredì per prima (Gen. 3:1-7; cf. Rom. 5 e I Cor. 15); 4) dopo la caduta, il desiderio peccaminoso di Eva di esercitare autorità sul marito sarà ribaltato dalla reazione altrettanto peccaminosa del marito stabilita come giudizio di Dio su Eva (Gens. 3:16 cf. 4:7). 

 

Da questa sezione concludiamo quindi che le Scritture neotestamentarie affermano con chiarezza che Adamo fu creato per essere il capo e la guida della moglie, responsabile di guidarla ad ubbidire al Signore nel dominare il resto della creazione, e che la relazione stabilita da Dio al principio tra Adamo ed Eva rappresenta un pattern che deve informare e regolare le relazioni tra marito e moglie, in famiglia ed in chiesa. La sottomissione della moglie al marito, e della donna in generale alle figure di autorità in famiglia (padri) ed in chiesa (anziani) sono un’ordinanza creazionale, stabilita da Dio fin dal concepimento di uomo e donna, e non rappresentano una distorsione di questi ruoli dovuta al peccato, come vorrebbe la contenzione femminista. 

 

Il Nuovo Testamento, come abbiamo visto, non introduce alcuna nuova relazione tra uomo e donna rispetto al contesto creazionale iniziale, ma ribadisce, redime e riafferma pienamente quanto stabilito da Dio fin dal principio. Questo ordine deve essere rispettato in famiglia come in chiesa. Va infine rimarcato che questa proibizione di insegnare, come anche di parlare in chiesa, non pertiene soltanto ad una situazione di una chiesa o donna in particolare nel contesto originale, come a volte viene asserito dai femministi,[9]ma che deve essere ubbidita e praticata “come si fa in tutte le chiese dei santi” (v.34). Rispettiamo ed onoriamo quell’ordine divino ed apostolico, senza paura del mondo, ma piuttosto temendo Dio. 

 

 

Che dire dei passaggi “femministi”?

 

Qualcuno senza dubbio avrà pensato che vi sono altri dati biblici che contraddicono o quantomeno qualificano la mia posizione espressa finora. Elencherò dunque brevemente le principali comuni obiezioni dalla Scrittura a quanto ho argomentato finora, rispondendovi biblicamente. 

 

1) Argomento da Atti 2. A Pentecoste anche le “figlie” profetizzarono, ed in un contesto pubblico composto di uomini e donne. 

 

Risposta. Non è sintomo di un buon approccio interpretativo alle Scritture selezionare un passaggio singolo e meramente descrittivo, e trattarlo come una prescrizione, una regola per tutti e sempre. Inoltre, se facessimo questo con ogni evento che si verificò il giorno di Pentecoste in Atti 2, dovremmo quindi aspettarci, tra le altre cose, fuoco visibile dal cielo e un boato di forte vento in ogni riunione di preghiera odierna, giusto? Non conosco nessuno che interpreta così il passaggio, ma non capisco perché si dovrebbe prendere l’elemento delle donne che profetizzano in una riunione come normativo per noi oggi, ma non quello del fuoco e vento. 

 

Il passaggio è interamente non prescrittivo ed interamente descrittivo, e cosa descrive? Come afferma l’apostolo, l’adempimento nella storia della profezia di Gioele 2, che preannunciava l’avvento del nuovo patto e lo spargimento dello Spirito su tutto il popolo del nuovo patto, uomini e donne. Le lingue e le profezie date ad uomini e donne, accompagnate dal vento e dal fuoco sono l’adempimento visibile, iniziale, irripetuto ed irripetibile (in ogni suo aspetto) di quella peculiare profezia. 

 

2) Le “profetesse” dell’Antico Testamento. Miriam, Debora, Anna ed Hulda sono evidenza che già dai tempi antichi Dio voleva delle profetesse nel Suo popolo. 

 

Risposta. Ad una lettura contestuale di questi episodi si vedrà che essi non rappresentano quello che i femministi vorrebbero. 

 

Miriam (Es. 15:20-21) è descritta cantare una canzone in un contesto di sole donne in cui non erano presenti uomini. Deborah, non come i profeti ordinari dell’AT, mandati a ministrare al popolo intero (es. Gi. 6:8; I Sam. 7:15-17), è detta “dimorare sotto la palma di Deborah”, ed era il popolo a recarsi da lei, non lei ad andare a parlare in pubblico al popolo di sua iniziativa. Inoltre lei stessa espresse l’anormalità e l’umiliazione per il re derivante dal fatto che lei, una donna, avesse parlato nell’affare di Sisera e fosse apparsa in quel caso come un’autorità al posto suo (Gi. 4:8-9). Hulda (II Re 22:14) svolse il suo servizio “nel collegio”, ed era anche qui il popolo ad andare a consultarla, e non lei ad andare a parlare al popolo, in pubblico, come invece accadeva per i profeti (es. Ger. 2:2; 7:2; 11:6; 17:19; 19:2, 14; 26:2; 36:6). Anna, una vedova (Lu. 2:36-38), dimorava nel Tempio nella corte specifica delle donne, e il linguaggio del testo suggerisce che parlava individualmente a quelli che venivano nel tempio, similmente a quello che faceva Priscilla (col marito Apollo, At. 18). 

 

Considerando i dati biblici su queste donne, va detto quindi quanto segue: è evidente che esse svolsero un tipo di ministero in situazioni particolari, in modo quantomeno semi-privato, e che non furono stabilite come profetesse pubbliche per il popolo di Dio come invece lo furono i profeti maschi. Inoltre, essendo esse solo quattro nel corso di un periodo storico che da Deborah ad Anna copre ben più di 1000 anni, è evidente che esse non rappresentano un ministero regolare voluto da Dio come quello dei profeti o sacerdoti di Israele, da cui la storia biblica è invece costantemente dominata. 

 

Donne cristiane oggi possono profetare in contesti privati o in incontri di sole donne (cf. Atti 21:9). Quando lo fanno in pubblico a tutto il popolo di Dio questo rappresenta una forma di umiliazione e rimprovero da parte di Dio verso gli uomini, che evidentemente non stanno facendo tutto il loro dovere, proprio come quanto avvenne al tempo di Deborah. Anche Isaia (3:4-5, 12, 16ss.; 4:1) profetizzò che quando le donne esercitano autorità sul popolo di Dio questo rappresenta un’umiliazione, un giudizio da parte di Dio!

 

3) Obiezioni da Giovanni 4:28-30 ed Atti 18:24-26. La Samaritana e Priscilla sono chiari esempi nel NT di donne predicatrici. 

 

Risposta. Entrambi i passaggi ci mostrano donne che testimoniavano la loro fede (la chiamata legittima di ogni membro della chiesa in qualsiasi buona occasione, cf. I Pietro 3:15): esse non agirono e non sono descritte come predicatrici, missionarie, o simili. Vi è quindi evidentemente una reale differenza tra le due cose. Entrambi questi esempi, inoltre, ci descrivono la loro testimonianza al di fuori e non durante un incontro di chiesa. Tutti i membri della chiesa, uomini o donne, sono chiamati dalla Scrittura a testimoniare. Non tutti sono chiamati dalla Parola ad insegnare, predicare, e nemmeno a parlare in un incontro di chiesa. 

 

4) Le donne di Romani 16:6-7, 12. In questo passaggio abbiamo esempi di donne “operatrici”, come ad esempio Giunia,  “di nota tra gli apostoli”. 

 

Risposta. E’ incerto se Giunia fosse un nome maschile o femminile.[10] Ma anche comprendendolo come un nome femminile, “di nota tra gli apostoli” può significare, nell’originale, non che Giunia ed Andronico fossero essi stessi apostoli, ma che essi furono conosciuti e noti in modo particolare agli apostoli per il loro servizio svolto nei loro riguardi.[11] Le altre donne di cui parla il testo in questione “si affaticavano” nel senso legittimo in cui altre donne dovrebbero farlo secondo Tito 2:3-5 e I Timoteo 5:4-16 (che considereremo a breve), e non affatto implicando una posizione di autorità o un parlare in pubblico. 

 

5) Le “donne diaconesse”. Romani 16:1-4 chiama Febe “diacono”, e I Timoteo 3:11 ci dà una lista di requisiti per le donne diacono. 

 

Risposta. Nel caso di Febe, è utile ricordare che la parola “diacono” può essere usata nel NT anche come termine per indicare un “chi svolge un servizio” in senso generale, e non necessariamente una posizione più ufficiale.[12] Per quanto riguarda I Timoteo, molti credono che la lista si riferisca ai requisiti che devono avere le mogli dei diaconi maschi, e non delle donne diacono.[13] Ma anche ammesso e non concesso che si trattasse di donne diacono in entrambi i casi, questo comunque non implicherebbe una posizione di autorità e leadership in chiesa da parte loro (autorità che è svolta dagli anziani o missionari, e non dai diaconi) e non vediamo come contradirrebbe quanto affermato nella prima parte di questo saggio sul parlare in chiesa. 

 

6) I “fatti” parlano più delle teorie. In molte chiese le donne agiscono da leader, o comunque hanno un ministero pubblico durante gli incontri della chiesa, e Dio usa queste donne per benedire il Suo popolo. Questo dimostra che il tuo argomento iniziale non può essere vero. 

 

Risposta. Nessuna esperienza in sé può stabilire un principio, ma soltanto la Scrittura correttamente intesa nel suo contesto originale ed applicata a noi oggi in modo appropriato. “Sola Scriptura”, un importante principio biblico e uno storico motto evangelico, vuol dire che soltanto la Scrittura deve essere l’autorità infallibile per stabilire un punto di fede o pratica dei cristiani, e non opinioni o esperienze umane. La Scrittura deve giudicare le esperienze, e non le esperienze la Scrittura. Questo principio vale in ogni area di fede e di vita cristiana, e quest’area non ne è affatto eccettuata. Inoltre, come affermato già e come già avvenuto nel passato, che le donne parlino ed esercitino autorità in molte chiese rappresenta una forma di rimprovero agli uomini di Dio che non stanno ubbidendo a tutta la Sua Parola in quest’area.

 

 

La chiamata di una donna in famiglia ed in chiesa: breve excursus

 

Ma qual è la chiamata di Dio per le donne cristiane? Innanzitutto, se ci fosse bisogno di dirlo, le donne cristiane condividono pienamente i privilegi e i benefici del far parte a pieno titolo della chiesa di Gesù Cristo. Esse, insieme agli uomini, fanno parte del popolo escatologico di Dio del nuovo patto che riceve ed adempie le promesse di Dio fatte ad Abraamo di essere l’erede di un nuovo mondo insieme a tanti figli radunati da ogni parte della terra (cf. Gen. 12:1-3, Giov. 11:49-52; Rom. 4:13; Gal. 3:29; Ef. 2:11:3-6; Ebr. 11:8-10). Come affermato in Galati 3:28, quanto all’ereditare queste promesse della salvezza, non conta l’essere uomo o donna, appartenere ad uno o ad un altro popolo, o quale sia il proprio status sociale: in Cristo siamo tutti in principio già ora diventati una nuova umanità, che ha in comune un’identità ed un futuro che va al di là di tutte le distinzioni terrene del tempo presente[14] (cf. Gal. 5:6; Ef. 2:14-16; II Cor. 5:21; Mat. 22:30). 

 

In questo tempo tuttavia, fino al ritorno del Signore, un tempo del “già” dell’adempimento ma anche del suo “non ancora” pienamente, trovandoci ancora nelle condizioni terrene di questa creazione, Dio ci tratta ancora come uomini e donne, ed assegna delle chiamate ad uomini e donne in famiglia ed in chiesa che tengono ben in conto di queste distinzioni creazionali.[15] La Scrittura del Nuovo Testamento assegna pertanto alle donne in quanto donne e non uomini varie chiamate e ruoli importanti. I passaggi più rilevanti a riguardo sono i seguenti: I Pietro 2:9; 3:15; Giovanni 4:28-29; Atti 18:26; Efesini 5:22-24; I Pietro 3:1-7; I Timoteo 2:9-15; 5:3-16; II Timoteo 1:5; Romani 16:1-2; Tito 2:3-5. Leggete i passaggi e troverete che il seguente ne è un fedele riassunto che non lascia fuori niente di importante da essi affermato:

 

1) Le donne di Dio sono chiamate ad amare i loro mariti (credenti o non credenti), a rispettarli e sottomettersi ad essi, ad ubbidirli in ogni cosa che non sia contraria alla Scrittura come se lo facessero per il Signore. Esse non devono esercitare autorità sui mariti o agire da leader nella coppia, ma essere miti e agire con gentilezza e saggezza nei loro riguardi. Sono chiamate ad essere caste nel matrimonio, vestirsi in modo modesto e non appariscente, riconoscendo che l’ornamento che Dio desidera da loro sono le opere buone e che ciò che Lui considera di gran valore è uno spirito dolce e pacifico. Nell’essere e comportarsi così, esse non devono aver paura del giudizio del mondo, ma aver fede in Dio sapendo di star piacendo a Lui, che è quello che conta davvero (I Cor. 7:34b; Ef. 5:22-24; I Pt. 3:1-7; Ti. 2:4b, 5b; cf. anche Prov. 31:26).

 

2) Le donne cristiane sono chiamate ad essere lavoratrici in casa, diligenti nei vari importanti lavori domestici, aiutando i mariti a ben gestire le cose di casa. La maggioranza di loro è chiamata all’alta vocazione di essere madri, nutrendo e insegnando i figli a crescere nel timore e nell’ubbidienza del Signore, essendo loro di esempio, di istruzione e di guida in ogni cosa. Come mostra il passaggio di Proverbi 31, un lavoro fuori dall’ambiente domestico può rientrare nella loro chiamata se subordinato e complementare alla miglior gestione delle faccende di casa, al supporto del marito e all’approvvigionamento dei figli. La “carriera” moderna parallela al marito, e indipendente dalla famiglia, non è contemplata come obiettivo di una donna credente: il suo focus è chiaramente la casa, il marito ed i figli (Prov. 31:12-19, 21-24, 27; Ti. 2:5; I Tim. 2:15; 5:10a, 14). Diverso è il caso di una donna single o che rimane senza sposarsi. 

 

3) Tutte le donne che fanno professione di pietà sono chiamate a coltivare l’ospitalità cristiana verso gli stranieri e specialmente verso la famiglia della fede, a fare buone opere, a seconda del tempo e delle occasioni, quali assistere gli afflitti, gli ammalati, i poveri, i leader cristiani e la chiesa nei loro bisogni terreni. Sono altresì chiamate ad essere insegnanti di buone opere secondo la Parola di Dio (con tutto ciò che questo può includere) nei confronti delle donne più giovani, ad essere insegnanti di bambini, e a testimoniare della loro fede quandunque ne abbiano una buona occasione, in qualsiasi contesto legittimo (Prov. 31:20, 26; Is. 43:10; I Pt. 2:9; 3:15; Giov. 4:28-29; At. 18:26; Rom. 16:1-2; Ti. 2:3-5; I Tim. 5:10; II Tim. 1:5, passaggi su testimonianza). Far bene in tutte queste vocazioni occuperà totalmente una donna di Dio![16]

 

 

Conclusione

 

In questo saggio abbiamo visto che la Parola di Dio proibisce alle donne di parlare in chiesa perché proibisce loro di essere ed agire come un’autorità in famiglia ed in chiesa. Le donne hanno ricevuto da Dio altre buone chiamate. La donna che metta da parte l’orgoglio e la paura e risponda invece pienamente alle chiamate che Dio le assegna nella Sua Parola ne riceverà benedizione, felicità, e lode da Dio e dagli uomini fedeli (cf. Rom. 2:29 con Prov. 31:28, 30-31)!

Note

[1] Esempi di teologi del passato che hanno sostenuto questa veduta sono il battista John Gill (XVIII sec.) e il presbiteriano R. L. Dabney (XIX sec.). Nel mondo evangelico conservatore contemporaneo questa veduta riceve un consenso ampio, rappresentato da The Council for Biblical Manhood and Womanhood.

[2] B. B. Warfield, Paul on Women Speaking in Church, pp. 1-2.

[3] Altri commentatori che hanno compreso così la relazione tra i due passaggi sono, tra gli altri, Calvino, C. Hodge, Lenski, Godet, MacArthur. Quanto poi alla questione del “velo”: non è tra gli argomenti qui trattati, ma la mia convinzione, a cui sono giunto dopo quasi due decenni, sostenuta anche da alcuni esegeti conservatori moderni (e.g. M. Marlowe, A Woman's Headcovering), è che il passaggio comandi che una donna credente si copra il capo quando prega o profetizza, e ciò dovunque e quandunque ciò accada. 

[4] La chiesa è detta essere “la famiglia della fede” (Gal. 6:10, ND), “la famiglia di Dio” (Ef. 2:19), “la casa di Dio” (I Tim. 3:15). 

[5] Che si intenda una relazione di genuina autorità/sottomissione tra moglie e marito è confermato anche dalle istruzioni date a figli e padri (Ef. 6:1-4 e Col. 3:20-21) e a servi e padroni (Ef. 6:5-9; Col. 3:22-4:1), tutte descritte in termini analoghi (benché non identici) di sottomissione/autorità (figli a padri e servi a padroni), ed illustranti il principio stabilito in Ef. 5:21: “siate sottomessi gli uni agli altri”. 

[6] Secondo Efesini 6:1-4 e Colossesi 3:20-21, i figli sono chiamati ad ubbidire ad entrambi i genitori, e quindi è implicito che entrambi i genitori debbano educarli. D’altro canto, sono i padri ad essere considerati i principali responsabili di questa educazione, in quanto in questi passaggi lo Spirito si rivolge solo a loro e non anche alle madri. 

[7] Tra le qualifiche necessarie per un anziano vi è quello di essere “marito di una sola moglie”. I femministi hanno detto che “marito” può essere anche tradotto “uomo” nel senso di “essere umano”, e quindi che il passaggio starebbe dicendo che un anziano, che sia uomo o donna, deve essere monogamo. Ma questo è impossibile nel linguaggio originale, dove viene usata non la parola più generale per “essere umano” che è anthropos (usata ad es. in I Tim. 2:1, 4-5; 4:10; 5:24), ma quella specifica per “uomo, maschio”, ovvero aner. Inoltre gli anziani devono aver dato prova di saper ben guidare (gr. proistemi, lett. “stare davanti”) le proprie famiglie come banco di prova per saper guidare la chiesa (I Tim. 3:4), e questo compito nel matrimonio è assegnato da altri passaggi solo agli uomini. Guidare la chiesa è dunque analogo a guidare una famiglia estesa, ed entrambe le cose comportano un reale esercizio di autorità. 

[8] Matthew Henry, Commentary on the Whole Bible Complete and Unabridged in One Volume (USA: Hendrickson, 1991), pp. 2353.

[9] Alcuni femministi (e.g. F. F. Bruce) hanno affermato che “la donna” in I Tim. 2 sia una donna in particolare nel contesto originale che stava abusando l’autorità, pur in sé però legittima, sull’uomo. Questo, oltre ad essere una forzatura del linguaggio del passaggio, contraddice le motivazioni addottevi, e soprattutto i passaggi biblici che parlano di autorità maschile in famiglia (e quindi in chiesa) e I Cor. 14:34 che afferma che questo silenzio e sottomissione era ordinato in ogni chiesa apostolica a motivo dei principi senza tempo su cui era basata e addotti nel testo. 

[10] Daniel B. Wallace in Junia Among the Apostles ed Al Wolters in IOYNIAN (Romans 16:7) and the Hebrew Name Yehunni, affermano questo dopo aver condotto studi estesi su questo nome nell’antichità. Anche il Council of Biblical Manhood and Womanhood afferma lo stesso in Fifty Crucial Questions, Q. 38

[11] Di nuovo, così Wallace e lo studio del CBMW, Q. 38. 

[12] Cf. Mat. 8:9; 24:45; 26:51; Rom. 16:1.

[13] Buoni esempi sono Benjamin L. Merkle in Baptist Foundations, pp. 317-319, e Brian M. Schwertley, A Historical and Biblical Examination of Women Deacons. Mi preme qui rimarcare che tra i requisiti di un diacono vi è quello di governare bene la propria famiglia, e questa chiamata appartiene solo agli uomini, come abbiamo visto. I primi diaconi, inoltre, furono tutti maschi, cf. Atti 6:1-6.

[14] Nient’altro che questo è il significato contestuale di Gal. 3:28 spesso citato a sproposito dai femministi. Un passaggio che afferma lo stesso con parole diverse è Romani 10:12-13. In questi due passaggi, entrambi paolini, si parla chiaramente di salvezza e non di ruoli familiari o ecclesiali. 

[15] Lo stesso dicasi riguardo le distinzioni culturali tra Giudei e Gentili che il Signore vuole rispettate e non abolite nella chiesa (cf. Romani 14), come anche per le diverse posizioni sociali occupate da “padroni” e “schiavi” all’interno della società di allora, che pure non vengono abolite, ma regolate (cf. I Cor. 7:20-24; Ef. 6:5-9; Col. 3:22-4:1). Così, se il Nuovo Testamento considera tutte queste distinzioni irrilevanti quanto alla salvezza eterna e alle relazioni e doveri spirituali tra i membri della chiesa, esso le lascia intatte quanto alle differenze sociali che esse ancora comportano nel mondo presente e nella società più in generale. 

[16] Lo scopo di questo saggio non è approfondire queste chiamate, ma presentarle come l’alternativa biblica positiva a quanto invece abbiamo mostrato non essere la volontà rivelata di Dio per una donna credente. Per altre buone risorse in lingua italiana, il lettore è rimandato a: Alan Dunn, L’autorità nel matrimonio alla luce della creazione e della caduta; Nancy Wilson, Lodata alle porte della città; Tim Challies, Modestamente essere. Non tutto quello che viene affermato in questi volumi è necessariamente condiviso dall’autore di questo saggio. 

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